Passa al contenuto principale
Gesuiti
News
Riflessioni News & Eventi

Perché resti il Mare Nostrum occorre pensare a ciò che facciamo…

Alcuni spunti di riflessione all’indomani della tragedia nel mare di Crotone

Condividiamo la riflessione di Massimo Asero, nostro collaboratore, sul tragico naufragio avvenuto a Steccato di Cutro in provincia di Crotone 

Di fronte all’ennesima tragedia consumata, a breve ridosso delle rive di Crotone, nel Mare Nostrum, tra le acque in tempesta – fisicamente, nella contingenza dei fatti, metaforicamente a volere icasticamente descrivere a riguardo la condizione attuale della civiltà giuridica e cultura politica dei Paesi europei, i quali ciò che in quel Mare accade dovrebbero… governare – appare ineludibile tornare anzitutto a porsi alla ricerca dei confini dell’umano, e da qui interrogarsi sull’esistenza di un senso e di una misura nell’agire individuale e collettivo, drammaticamente lacerati dalla evidente attualità di una rappresentazione metaforica della civiltà e con essa dell’uomo occidentale: il naufragio con spettatore, che Hans Blumenberg costruisce richiamando i celebri versi d’apertura del secondo libro del De rerum natura di Lucrezio:

Bello quando sul mare si scontrano i venti

E la cupa vastità delle acque si turba,

guardare da terra il naufragio lontano:

non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina;

ma la distanza da una simile sorte.

Siamo, possiamo davvero ritenere di restare semplici spettatori di fronte al naufragio, e ad uomini che lo vivono prima sulla Terra e poi – fuor di ogni metafora – morendo annegati nel Mare in tempesta, senza smarrire il senso e la misura del nostro saper contemplare ed agire e con essi della nostra condizione umana?

Sentire, pure a distanza, l’acqua sopraffare settanta e più altri uomini e innocenti bambini e l’aria sempre più mancare loro, togliendogli infine ogni afflato di vita; guardare da terra dissolversi tragicamente le altrui speranze di realizzare il fondamentale diritto umano alla felicità, affidate disperati al viaggio intrapreso avendo detto addio alla Terra che come nessun’altra potrà mai essere è di ogni natio, e di migrare per aspirare attivamente a quella felicità – forse non per sé ma almeno per i propri figli, generazione futura che per il naufragio non verrà, lasciando orfani e inconsolabili civiltà e lidi italici e d’Europa.

Non è questo il tempo e nemmeno il luogo per celebrare processi agli uomini a più vario titolo coinvolti in questa vicenda, per verificare se dal punto di vista delle norme positive dell’ordinamento giuridico italiano, e poi di quelli europeo e internazionale, ciascuno di loro abbia agito in coerenza alle politiche e alle prescrizioni normative che l’agire avrebbero dovuto orientare e definire, applicando correttamente tutte le procedure, le regole d’ingaggio, i protocolli previsti per affrontare la situazione in questione. Per questo, come già a Berlino, ci sarà un Giudice in Italia e se del caso a Lussemburgo (Corte di giustizia dell’Unione europea) e a Strasburgo (Corte europea dei diritti dell’uomo).

Ѐ però la realtà ad imporsi al cospetto del pensiero e ad interrogarlo. Come scriveva Hannah Arendt, sintetizzando magistralmente il senso del proprio insegnamento: tutto quello che propongo è semplicemente pensare a ciò che facciamo, dunque ricominciare ad orientare il nostro agire secondo quel principio di responsabilità che solo anima davvero secondo giustizia il nostro coesistere, secondo quella misura che dell’agire è recta ratio e annulla la distanza tra naufrago e spettatore e l’estraneità all’altrui condizione, mentre insieme alimenta la compassione e pretende il coinvolgimento e un agire responsabile conseguente.

Ѐ perciò anche messa in questione la nostra condizione di uomini e cittadini di un Paese membro dell’Unione ed insieme europei, che pretende nella direzione anzidetta di essere vissuta con piena consapevolezza, e per l’appunto pensando a ciò che facciamo o che in nome nostro viene fatto. Occorrono scelte e politiche nazionali ed europee con una determinazione nuova e con la consapevolezza che non farle permette il ripetersi di situazioni analoghe, ha sottolineato il Presidente della CEI, card. Zuppi, prospettando la necessità di una risposta strutturale, condivisa e solidale tra le Istituzioni e i Paesi perché nessuno sia lasciato solo e l’Europa sia all’altezza delle tradizioni di difesa della persona e di accoglienza. Occorre a proposito segnalare alcuni profili critici, che rischiano altrimenti di restare nascosti, come è stato sino ad ora, e sollevare così quel velo d’ipocrisia che una certa narrazione ha costruito ad arte sulla questione migratoria, assegnando per lo più all’Unione il ruolo del responsabile, incapace di mettere in campo efficaci politiche migratorie, e agli Stati quello delle vittime su cui ricadono le conseguenze negative di responsabilità sempre altrui.

In estrema sintesi, la narrazione ruota, infatti, attorno ad un evidente corto circuito. Per un verso, ogni qual volta sembri utile ad un certo interesse degli Stati membri, essa contiene la rivendicazione della condizione di signoria dei trattati dei suddetti Stati: basti ricordare, proprio con riferimento alla questione delle crisi migratorie, che, secondo una critica diffusamente mossa dagli Stati nei confronti dell’Unione europea, quest’ultima neppure dovrebbe occuparsi di immigrazione poiché si tratterebbe di una competenza sovrana degli Stati. Per l’altro verso, tuttavia, sono poi proprio gli Stati, quando è richiesta la convergenza delle volontà degli stessi per la programmazione e lo svolgimento dei negoziati, a praticare forme di ostruzionismo in ragione di interessi nazionali o di aree macro-regionali; e a manifestare una sostanziale reticenza a superare il cosiddetto sistema di Dublino, che stabilisce criteri e meccanismi per determinare lo Stato membro competente ad esaminare una domanda di protezione internazionale ma senza prevedere, in ragione della necessità di governare a livello europeo i flussi migratori, meccanismi automatici di ricollocamento dei richiedenti asilo secondo un sistema di quote – l’accordo siglato dal Consiglio europeo affari interni a giugno scorso, relativo all’adozione di un “meccanismo volontario di solidarietà”, è stato firmato solo da diciannove degli stati membri e comunque la sua attuazione procede a tutt’oggi a rilento.

Insomma, è ancora una volta tra le insidiose onde del Mare nostrum che la cultura politica e insieme ad essa pure la civiltà giuridica degli europei – che ivi sono nate – rischiano di vivere il proprio naufragio. Richiamando ancora la magistrale lezione di Hannah Arendt, il pericolo è allora che il patrimonio identitario dell’Europa, espresso nelle disposizioni del Trattato sull’Unione europea con parole dotate di grande vigore concettuale in cui si afferma l’ispirazione alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto, finisca per essere rinnegato e travolto dall’idea che i migranti rappresentino in qualche modo oggi la schiuma della terra, in cui sempre strisciante trova rinnovata espressione, in una nuova tentazione nichilista, la banalità del male. Schiuma alla quale, piuttosto che il coinvolgimento e l’intervento, si può anche decidere di rivolgere solo uno sguardo da terra, lasciando persino che eventualmente il naufragio si compia, non rallegrandosi certo per lo spettacolo dell’altrui rovina, ma forse finendo per farlo per la distanza da una simile sorte.