Facciamo ripartire quegli orologi fermi

Guardando la facciata di Palazzo delle Aquile a Palermo, colpisce l’orologio sull’entrata. Un orologio fermo, a segnare un’ora che non cambia, mentre la città gli transita intorno ma con un ritmo diverso, rapido e frenetico. Anche dentro la Sala consiliare c’è un orologio e anche questo è fermo. Così, l’immagine dell’orologio fermo si presta a divenire la metafora della distanza fra due mondi: quello dell’amministrazione comunale e quello del cittadino.
Ci sono troppi problemi a Palermo che richiedono attenzione e interventi; problemi gravi rispetto ai quali non si può stare ancora fermi. O peggio, camminare con il passo del gambero emanando provvedimenti che devono essere ritirati fra le polemiche. Servono politiche di indirizzo, serve pianificazione; servono politiche sociali rivolte alle fasce deboli della popolazione; servono soluzioni per risolvere questioni che da troppo tempo attendono un intervento, come le ex municipalizzate e i loro buchi di bilancio, l’inquinamento, lo smaltimento dei rifiuti. Servono strategie che possano regolare e indicare percorsi di sviluppo nei quali far confluire le risorse. Ma le casse sono vuote. Non ci sono fondi per servizi essenziali e se ci sono, come nel caso della legge 328 – Fondo nazionale delle Politiche sociali, non vengono attivati. Così, come sempre, sono le fasce più deboli le più penalizzate, quelle che vengono “utilizzate” in campagna elettorale ma che poi vengono sistematicamente ignorate o additate come il “male” della città, la sua componente meno disciplinata, meno “cool”. Non ci sono soldi per la manutenzione di molte scuole e così i bambini di alcuni quartieri si ritrovano a studiare in edifici che sfiorano lo squallore e il disservizio.

Non ci sono i soldi, ci si dice. Ma la domanda che ci si deve porre è: come vengono amministrate le risorse? Infatti, le tasse pagate dai cittadini hanno senso nella misura in cui vengono impiegate con rispetto e trasparenza, finalizzandole all’erogazione di servizi essenziali, con fini di equità sociale. Non dovrebbero, invece, servire per perpetrare sperperi e privilegi. Anche perché, ad oggi, i costi sociali di questo uso disinvolto delle risorse pubbliche cadono sui cittadini più deboli mentre le responsabilità non sono di nessuno. Si dice: “È capitato. Che cosa si può fare?”. E a chi cerca di indagare le cause dei dissesti si risponde che è solo un disfattista, uno che “rema contro”, uno che non ha a cuore il destino della città e non vuole collaborare alla ricerca di soluzioni. Si affaccia lo spettro del pensiero unico. In effetti, non è ferma solo la progettualità; è fermo anche il senso critico, la capacità di elaborare opinioni, di ricostruire fatti. Palermo appare senza storia (senza individuazione di responsabilità, senza nessuna ricostruzione della biografia politica degli amministratori, dei “meriti” conquistati sul campo) ma anche senza futuro (nessuna progettualità, nessuna individuazione di obiettivi strategici da perseguire attraverso una sistematica pianificazione degli interventi e dell’allocazione delle risorse). È una città in cui vige il “fai da te” ma soprattutto è una città senza coesione, dominata dal divide et impera, in cui tutti sono contro tutti e non si fa massa critica.
Per interrompere questa deriva, sono essenziali alcuni requisiti: impegno, unità, argomentazione. Innanzitutto, richiamandoci idealmente al paradigma exit/voice di Hirschman, si tratta di scegliere di far sentire la propria voce, di cercare canali per interloquire manifestando la nostra insoddisfazione piuttosto che optare per il disinteresse, rifugiandosi nel privato e trattando l’amministrazione della Cosa pubblica come una questione non di proprio interesse. Il secondo requisito è l’unità. La città è afflitta da una tendenza alla frammentazione nel corpo sociale e nella politica che è una delle cause della difficoltà a produrre mutamento. Se non si riesce a fare “massa” non si possono avviare processi virtuosi. L’isolamento neutralizza la “novità”, la rende improduttiva e la destina ad esaurirsi. Infine, è essenziale la capacità di argomentazione, cioè riprendere l’abitudine ad una dialettica democratica basata sul confronto civile fra diverse posizioni. In un’epoca dominata dalle “arene” televisive, dall’accavallamento irrispettoso delle diverse opinioni, dall’insulto sterile, infatti, riconquistare la capacità argomentativa equivale ad un importante esercizio di democrazia. Impegno, unità e argomentazione, infatti, possono condurre ad una nuova prospettiva nell’esercizio della cittadinanza ma anche nel confronto politico. È auspicabile una ritrovata unità che non sia, però, solo “contro” qualcuno o qualcosa ma che sappia essere anche “per”, finalizzata alla realizzazione di un nuovo impegno e di un nuovo progetto che faccia ripartire la città da troppo tempo ferma.
Si tratta allora di riavviare gli “orologi”. Tutti quanti: degli amministratori e dei cittadini.
Se l’amministrazione attuale non è capace di rimettere in moto queste “lancette”, allora è opportuno che lasci spazio ad altri. Ricordiamo, però, che ognuno di noi è un potenziale orologiaio in grado di riparare il guasto, qualora sia disposto a mettere in campo le proprie competenze e la propria dignità ma soprattutto la propria passione per una città a misura d’uomo. Condividiamo i nostri sogni di cambiamento.
È ora di ripartire.

Gianni Notari

(da La Repubblica – Palermo, sabato 18 aprile 2009)